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Alessandro F. Kineith

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   Alessandro  F.  Kineith

 

“Oltre l'onda più grande”

 

romanzo

 

Avventure sui mari

(Vol. X°)

 Edizione 2022

 

     Leggende perdute nel tempo.

 

“Non ho mai visto il mare” disse il giovane Tom standosene appollaiato in cima alla scala a pioli appoggiata sul lembo esterno del granaio dov’era accatastato il fieno per le bestie, che nei mesi invernali serviva a dar loro sostentamento, “eppure mi capita spesso di pensarci” continuò, “il fatto è che non riesco a dargli una dimensione… molti dicono che è piuttosto esteso, ma non so quanto; l’unica cosa certa che so, è che non si riesce a vedere oltre il suo orizzonte.” L’uomo che stava al pianterreno alzò il capo e lo guardò per alcuni istanti senza dire nulla, come se in qualche modo volesse sottolineare che in fondo, era assolutamente vero che il mare fosse esteso più di quanto un profano come quel giovane contadino potesse immaginare, e non si trattava solo per l’estensione delle acque, ma per la profondità degli abissi e ciò che nasconde sotto la sua superficie. L’uomo sottostante sapeva fin troppo bene cosa rappresentasse il mare e quanto fosse immensa la sua grandezza; lui che per anni ne aveva solcato le onde, combattendo i marosi, affrontando venti impetuosi che turbinando furiosi agitavano i flutti. “Mio caro ragazzo” esordì lo straniero, “il mare, per molti versi è una grande via di comunicazione, ma se vuoi saperne di più, compresi gli uomini che hanno navigato sopra di lui” disse pacatamente, “dovresti leggere almeno una delle tante storie che generazioni di marinai hanno vissuto e scritto nel tempo, solo allora avresti un’idea più precisa di cosa sia il mare e soprattutto, cosa ha rappresentato e cosa continua a rappresentare per il genere umano.”

 oooOOooo

     Fu in un pomeriggio alla fine di Settembre dell’anno di grazia 1825 che un cavaliere chiese asilo nel suo casolare a causa di un violento nubifragio che si stava abbattendo sui viandanti che percorrevano la via tortuosa disseminata di boscaglie che conduceva i forestieri  alla volta di Parigi. Il giovane Tom rimase piuttosto sorpreso che un così elegante signore accettasse la sua ospitalità.

 

“Da dove provenite” chiese il giovane Tom incuriosito dall’aspetto fiero ed dall’eleganza della sua giubba.”

“Provengo da Saint-Malo e sono in viaggio per Parigi.”

“Da Saint-Malo” esclamò Tom, “allora se provenite dalla costa siete un viaggiatore… però non siete francese” replicò subito dopo, “lo sento dal vostro accento.”

“E’ vero non sono francese, sono americano, sono approdato sulla costa francese alcuni giorni or sono.”

“Davvero” esclamò a gran voce il villano, “se siete americano significa che avete attraversato l’oceano.. siete forse un marinaio?” azzardò insistentemente Tom.

“Si ragazzo mio lo sono stato, ora non più, ma dimmi, che posto è questo, dove siamo?”

“Questo è il villaggio di Saint-Céneri-le-Gérei, nella regione della bassa Normandia; se siete diretto a Parigi avete ancora un bel po' di strada da fare” precisò il giovane Tom, “purtroppo siamo agli inizi d’Autunno ed è iniziata la stagione delle piogge, sarebbe opportuno che voi aspettaste la prossima schiarita prima di proseguire il viaggio, altrimenti sotto le intemperie vi buscherete un malanno.”

“E quanto tempo dovrei aspettare secondo te” chiese il cavaliere piuttosto contrariato dalle circostanze.”

“Se tutto va bene una settimana, se va male almeno dieci giorni, poi a Dio piacendo ci sarà una schiarita in attesa che arrivi il freddo portato dal vento del mistral.”

 

Dopo un attento esame e la conseguente rassegnazione, lo sconosciuto cavaliere decise che era meglio interrompere il viaggio e chiese al giovane Tom, dove avrebbe potuto trovare un alloggio per un tempo così lungo.

 

“Se volete” proseguì solerte il giovane, “potete usufruire della mia ospitalità, basta che siate in grado di pagarvi il desinare, io non sono ricco” precisò, “posso solo offrirvi un tetto e un ricovero per il vostro cavallo.”

“Ma cosa diranno i tuoi genitori di questa idea? Bisognerà chiederlo prima a loro se sono d’accordo.”

“Non dovete preoccuparvi, io qui vivo solo, i miei sono morti da un po’: mia madre di una strana malattia e mio padre di polmonite… almeno così ha detto il curato del paese.”

“Acciderba, mi dispiace per le tue disgrazie, ma se le cose stanno così allora vorrei approfittare dell’ospitalità che mi hai offerto.”

 Lo sconosciuto cavaliere tolse la voluminosa sacca dalla groppa del cavallo, tolse la sella e la gualdrappa e le pose sullo steccato all’interno della stalla, mentre Ton sistemava una dose abbondante di biada nel recinto del cavallo, poi invitò lo straniero a seguirlo e si diressero verso la vecchia casa; un antico casolare costruito metà in pietra con la parte superiore in legno di quercia, dove erano state ricavate delle finestre di piccole dimensioni per difendersi più agevolmente dal freddo pungente dell’inverno. Quella antica dimora costruita da chissà quanti anni aveva un aspetto massiccio ma sobrio quasi elegante, col tetto di paglia a similitudine dei cottages bretoni, tipico dei casolari disseminati in un territorio desolato della Normandia, popolato per lo più da gente che apparteneva a una genia di persone abituate da generazioni a vivere arcaicamente, un po’ schiva, taciturna e poco socievole, ma come si sa: non tutti gli esseri sono uguali, diversamente da Tom dal carattere socievole.

Quel giorno e ancora quello seguente, la pioggia continuò ad imperversare ininterrottamente causando un fastidioso aumento dell’umidità che penetrava nelle ossa, simile ad una lama che fende un panetto di burro. Tom aveva ragione, meglio attendere che il tempo si assestasse prima di riprendere il viaggio; intanto nel silenzio e nella tranquillità del casolare, il forestiero si stava rendendo conto che quella sosta forzata, dopotutto, era un toccasana per i suoi dolori lombari, da buon marinaio non era abituato alle lunghe cavalcate e dopo giorni trascorsi sulla groppa del cavallo, un po’ di riposo non poteva che arrecagli sollievo. Tutto sommato starsene comodamente seduto di fronte al caminetto irradiato dal tepore che i ceppi ardenti emanavano nella stanza, era per davvero un piacere, oltremodo corroborato dal sapore del sidro che Tom gli aveva offerto.

 “Però fate attenzione” precisò osservando che il suo ospite continuava a sorseggiare il deliziosa bevanda, “non esagerate, anche se il sidro ha una bassa gradazione può inebriarvi sino al punto di intontirvi, non sareste il primo né l’ultimo a risentirne degli effetti.”

  Oltre a ciò, vivendo in quel cascinale sperduto nei declivi normanni, nel quotidiano contatto con Tom, quando quest’ultimo non era occupato nelle sue faccende, cominciò a sorgere una sorta di comunicativa e la semplicità dei loro rapporti si articolava più che altro sulle cose che riguardavano la quotidianità; la mungitura delle uniche due vacche che Tom possedeva, lo stivaggio del fieno già essiccato, il taglio della legna e l’accatastamento dei ciocchi che sarebbero serviti ad alimentare il camino, la sgranatura del sorgo oramai maturo, l’essiccatura delle mele e così via. Non vi era molto tempo per parlare, ma alla sera la convivialità si accendeva, soprattutto nel momento in cui Tom disponeva accuratamente le vivande all’ora del desinare, specialmente la prima volta che fu servito del burro salato dal sapore pannoso spalmato sul pane di segale, che serviva come supplemento alla cotriade, una sorta di zuppa di pesce con l’aggiunta di aringhe affumicate e tuberi. Un’altra prelibatezza che l’ospite straniero seppe apprezzare era il formaggio fatto con latte intero, una vera prelibatezza dal sapore sublime e per finire, uno strano dessert fatto di fettine di mele essiccate. Ebbene, questi convivi non facevano che predisporre gli animi alla eloquenza e pian piano, giorno dopo giorno, Tom ascoltava con voracità le vicende che appartenevano al mondo del mare e più la narrativa aveva seguito, più il giovane sgranava gli occhi e rimaneva affascinato dal racconto che lo straniero gli sciorinava, tanto che ad un certo punto a quest’ultimo crebbe spontanea una domanda.

 “Dimmi una cosa Tom, perché ti interessa tanto conoscere cose che riguardano il mare? Tu qui conduci una vita tranquilla, lungi da tafferugli o baruffe e tantomeno da guerre che sconvolgono la vita di chi è costretto a subirle!”

“La vostra osservazione non fa una grinza” precisò a sua volta Tom dopo aver sorseggiato un po’ di sidro, “forse avete ragione nel dire che qui io vivo nella tranquillità. Io appartengo ad una generazione di contadini e non mi lamento per questo, a volte però, tutta questa solitudine e questo silenzio mi opprimono… non so mai cosa succede oltre la grande quercia in fondo alla piana che delimita la mia proprietà, non conosco nulla del mondo esterno né quello che vi succede e l’unico elemento che mi permette di espandere la mia fantasia è il mare, dove penso che accadano cose straordinarie. Inoltre” proseguì serio, “non so leggere, perciò non posso nemmeno documentarmi; nella casa del curato una volta ho veduto un grande scaffale con tanti libri, chissà mai di cosa parleranno.”

“Certo che non saper leggere è un grosso impedimento” commentò il forestiero, “però puoi sempre imparare.”

“Voi dite! Ma ci vuole tempo ed io qui sono solo e devo occuparmi di tutto… e poi, non saprei come fare.”

“Allora ti narrerò io qualcosa di cui conserverai un ricordo indelebile.”

“Da quel che mi è parso di capire” esordì prontamente Tom, “voi non siete un semplice marinaio, io penso che voi siate un combattente di mare.”

“Sì è vero Tom, io ero.. un combattente di mare.”

 Dopo la risposta, il ragazzo sembrò riflettere sulla parola combattente, come se stesse cercando il modo più adeguato per porre al forestiero un’altra domanda.

 “Io sono  all’oscuro di molte cose, specie sulla vita e sulle vicende che riguardano i combattenti di mare, tuttavia mi chiedo: perché mai essi combattono così lontani dalla costa… non bastano le guerre sulla terra forma?

“Caro Tom, le tue affermazioni meritano senz’altro una risposta, ma per quante rivelazioni io possa farti, comunque, non è facile risponderti; posso dirti che di per sé il genere umano è stupido e sono millenni che continua ad essere stupido. Io mi sono battuto per dei principi, per la libertà, ma la guerra comunque la si possa definire, alla fine si tratta sempre di distruzioni, di morte. Ho combattuto per lungo tempo sul mare e dopo innumerevoli scontri, sono giunto ad una mia personale convinzione ed è questa: e se ti dicessi che qualsiasi guerra, comprese quelle combattute sul mare, spesso scoppiano per dei cavilli che sembrano insormontabili, dietro ai quali si celano delle scommesse sbagliate! E cosa mi diresti se ti confermassi che certe scommesse scaturiscono dalle menti di coloro che sono assolutamente convinti che il loro avversario sia meno potente e non farebbe mai nulla di insensato per contrastare un’azione condotta contro di lui, anche se si trattasse di una semplice dimostrazione di forza! Al contrario, spesso accade che quell’avversario anche se potenzialmente inferiore è portato ad agire per orgoglio, contro ogni logica e si accanisce contro il più potente con maggior violenza, come a dire: io non temo nessuno! Sembra un’assurdità, ma è così. Sappi che in una guerra perdono tutti, anche il vincitore, perché alla fine deve fare i conti di quante vite umane sono andate perdute.”

“Dunque è davvero così tremendo combattere” esclamò piuttosto sorpreso il giovane contadino normanno.


 

  

Capitolo primo

 

  Dal Diario di bordo.

“Chester II°” anno di grazia 1799.

 

“Il mondo del mare, affascinante quanto turbolento e imprevedibile, fonde sulla cresta di ogni onda la vita del marinaio che osa misurarsi con lui, senza limiti di tempo né di spazio, impassibile come sempre alle speranze che ciascuno custodisce nel proprio cuore. Mille volti, mille battaglie, mille gesta gloriose non saranno mai abbastanza per descrivere la sua grandezza, come nessuno mai saprà descrivere quanto sia estesa la sottile linea del suo orizzonte oltre al quale altri esseri di civiltà lontane solcano le sue onde.”      

                                             Capitano Norman D’Holly

 

 All’alba del 14 Maggio del 1799, all’incalzare della prima marea il brigantino “Chester II°” lasciò gli ormeggi del piccolo porticciolo di Belfast, una ridente cittadina affacciata sulla riva occidentale della baia di Penobscot nella Contea di Waldo, stato del Maine e si diresse in Atlantico. Nessun uomo dell’equipaggio sapeva dove fosse diretta la nave e tutte le supposizioni potevano essere valide; ciò faceva supporre che la loro destinazione fosse avvolta nel mistero, poiché le preparazioni del veliero e l’arruolamento dell’equipaggio si erano svolte in gran fretta e nel più stretto riserbo. La scelta degli uomini fu particolarmente accurata, così come l’entourage degli ufficiali in Comando. L’unico uomo che fu imbarcato extra tabella, in ottemperanza a certe esigenze di bordo fu il famiglio di nome Amilcare, che svolgeva anche funzioni di cuoco. Il solo che sapeva come stavano realmente le cose e ciò che avrebbe animato la nave nei mesi successivi era il Duca, conosciuto da molti per l’eleganza del suo abbigliamento e per i modi garbati con cui sapeva trattare la gente; molti lo definivano un damerino, in realtà pochi sapevano che in fatto di navi e di navigazione il Duca era un vero esperto e l’unico ad essere a conoscenza di queste sue qualità di combattente di razza era il suo secondo, il Tenente John Silver Stilane, francese di origine e americano di adozione nonché, suo fedele amico. Comunque, di lui poco si sapeva se non che aveva assunto il Comando del brigantino “Chester II°” solo un mese prima che la nave salpasse e il quel breve periodo, sotto la sua direttiva, il bastimento aveva subito diverse modifiche strutturali, fra cui lo snellimento nelle manovre del pian velico che comportò una scrematura sul numero degli uomini necessari al governo delle vele e per ottimizzare gli sforzi degli addetti, furono installati due verricelli, fissati rispettivamente alla base degli alberi di trinchetto e di maestra; furono sistemate anche due pompe di esaurimento che all’occorrenza potevano aspirare acqua sia dalla sentina che dai ponti sottostanti. Ma, prima di ogni cosa, durante i lavori di trasformazione furono praticati sei fori quadrati sotto i capodibanda di ciascun lato della nave e successivamente richiusi con altrettanti portelli, dietro ai quali furono allineate 12 colubrine da 9 Lb. con annessa riservetta per le polveri che fu ricavata nel sottoponte. A completamento di ciò, venne spostato il comando del timone da poppa estrema alla zona centrale subito a proravia dell’albero di maestra, dove fu costruita un’apposita chiesuola contenente la bussola e un nuovo strumento per la navigazione che nessuno aveva mai visto: un barometro di precisione. Insomma, fu un vero sconvolgimento che trasformò un semplice mercantile in una nave da guerra munita di bandiera di combattimento issata a riva.

 “Signor Wilmer, a che punto siamo con i controlli dei comenti all’interno dello scafo?”

“Siamo a buon punto Comandante, per domattina avrò terminato, compreso l’ingrassaggio ai nuovi rinvii del timone” precisò il capo marangone.

“Molto bene” esclamò soddisfatto il Duca.

 Poi il Comandante si rivolse al terzo ufficiale e lo esortò a prendere visione di come era stato semplificato l’intricato sistema di comandi del piano velico.

“E’ stata una mia iniziativa” precisò a sua volta il Duca  guardando verso l’alto, “alcuni comandi sono più diretti, ho eliminato alcuni rinvii e doppi passaggi, ed anche se questa modifica richiederà un maggiore sforzo, gli addetti saranno agevolati con l’uso dei nuovi verricelli; questo sistema ci permetterà di essere più celeri nel movimentare pennoni e vele.”

“Credo proprio di sì” convenne il sottotenente Michael Elbrus ufficiale addetto alle manovre, “ne stavo parlando proprio stamane col Nostromo, ed anche lui ha convenuto con me della praticità dei comandi.”

“Quand’è così allora va bene, comunque vi esorto a indottrinare adeguatamente i gabbieri e gli addetti alle manovre sul ponte... vi raccomando, sollecitate i vostri uomini  a fare pratica con l’uso dei verricelli.”

Finalmente arrivò il momento di imbarcare i viveri, era il preludio che solitamente precedeva la partenza. Oltre alle botti d’acqua fresca e le spettanze di birra e alcool, vennero imbarcati anche una dozzina di botticelle contenenti succo di cedro; per ultime furono imbarcate anche sei stie di polli che furono sistemate sotto la iole del Comandante, accanto ad alcune botti d’acqua e coperte con un telo cerato e per finire: dieci sacchi di sale che furono sistemati nel carrugio antistante la cucina e un gran numero di fascine di legna, necessarie per attizzare i fornelli. Insomma la nave era pronta a salpare; mancavano solo gli ordini.

 “Dì un po' Lester” barbottò sottovoce il Nostromo rivolto al timoniere che in quel momento se ne stava appoggiato alla ruota a caviglie di nuova costruzione che odorava di buon legno di quercia, “quanto pensi sia costato quel mantello di panno grigio che indossa il Comandante?”

“Non ne ho la più pallida idea… certo non poco.”

“Gli sarà costato almeno cinque dollari” si azzardo col dire il Nostromo.

“Ehi Lahu” sibilò fra i denti Lester, “non sarai invidioso perché il nostro Comandante si veste elegantemente, buon per lui che se lo può permettere.”

“Ah dicevo così per dire, per come si veste speriamo che sia altrettanto in gamba come marinaio, mi dispiacerebbe trovarmi nelle bizze per colpa di un bellimbusto che non sa comandare una nave.”

“Tranquillo, vedrai che sotto sotto, la scorza da marinaio c’è l’ha, non devi confondere l’atteggiamento di un damerino con l’esteriorità di un vero signore… secondo me il Duca sa il fatto suo, vedrai.”

Ormai il giorno si stava evolvendo verso il tramonto e i raggi obliqui del sole basso all’orizzonte s’infiltravano fra le sartie proiettando sulla coperta lunghi spicchi d’ombre, simili a strette viuzze di una minuscolo paesaggio adagiato su un pianoro ondulato che si perdevano all’infinito come fosse un miraggio.

Finalmente al tocco della nona ora si udì uno scalpitio di zoccoli che si inoltravano sul lungo pontile di legno ed un cavallo si arrestò davanti la passerella, ne discese un cavalleggero in divisa che subito chiese il permesso di salire a bordo.

 “Ho un dispaccio urgente per il Capitano Norman D’Holly” disse ad alta voce.

“Dai, sali a bordo” rispose di rimando l’ufficiale presente in quel momento sul ponte, sono il Tenente John Silver Stilane, puoi dare a me il plico.”

“Sono spiacente signore, ma ho l’ordine tassativo di consegnarlo nelle mani del Capitano Norman D’Holly.”

“Come desideri” esclamò Stilane senza scomporsi più di tanto, “Little  boy, svelto, va a chiamare il Comandante.”

 Qualche minuto dopo il Duca fece la sua apparizione in coperta, ricevette dalle mani del cavalleggero il plico degli ordini; dopo aver controllato i sigilli, firmò il documento che attestava di averli ricevuti e congedò il cavalleggero dicendo che non vi era una risposta immediata, poi si volse per rientrare nel suo alloggio sottocoperta, non prima di aver detto al suo secondo di seguirlo.

Il plico degli ordini che Benjamin Stoddert, primo segretario della Marina da guerra gli aveva fatto pervenire, altro era che la conferma di ciò che avevano già discusso in precedenza, proprio lo stesso giorno in cui gli era stato assegnato il Comando della nave. In quel periodo della sua storia, gli Stati Uniti non possedevano navi da guerra vere e proprie, più che altro si servivano di naviglio costiero del tutto insufficiente a salvaguardare il litorale del versante Atlantico dalle scorrerie dei corsari francesi, che agivano incontrastati e sequestravano qualsiasi mercantile americano incontrassero, come rivalsa per la dichiarata neutralità americana di non volersi schierare a fianco della repubblica rivoluzionaria francese che stava combattendo contro l’Inghilterra. La linea politica della giovane America di allora mirava soprattutto al commercio e non a belligerare con le nazioni europee a fini di conquista e questo, fra le altre cose, scatenò una guerra che non fu mai apertamente dichiarata ma che venne combattuta quasi esclusivamente sulle acque dell’Atlantico. Questo impasse politico indusse il governo di Washington a concedere “lettere di corsa” a chiunque avesse voluto contrastare i francesi, oltre al fatto, di trasformare alcuni mercantili in navi da guerra e affidarne il comando a ufficiali dei ruoli normali appena diplomati all’Accademia Navale.

 “Se così stanno le cose” commentò Stilane, “ci sarà un bel daffare.”

“Sì ma non sarà cosa facile contrastare i corsari francesi; comunque i miei ordini sono un po’ diversi… a noi è stato affidato un compito come dire: più arduo, più rischioso.”

“Sarebbe a dire!” Esclamò John Silver.

“Sarebbe a dire che non ci limiteremo a navigare lungo la nostra costa dando la caccia ai corsari francesi, ci dobbiamo bensì addentrare nel mare dei Caraibi e per quanto possibile, scovare le unità da guerra francesi che si aggirano in quei paraggi, ed è molto probabile che dovremo confrontarci con delle navi più potenti della nostra, sta a noi distinguere contro quali possiamo batterci.”

“Beh, non si può dire che il nostro sia un incarico facile da ottemperare” esclamò il secondo piuttosto sorpreso, “nel mare dei Caraibi andremo sicuramente a ficcarci proprio nella tana dell’orso… immagino che questa tattica dovrebbe indurre i francesi a rinunciare alle loro scorribande contro i nostri mercantili.”  

“Penso proprio di sì, comunque prima di dirigerci verso sud dovremo fare uno scalo intermedio a Boston per imbarcare le munizioni, è già stato tutto predisposto, quei pochi colpi che abbiamo nella riservetta servirebbero si e no per una scaramuccia.”

A tal proposito” precisò a sua volta John Silver, “ho parlato con il Tenente Scott, esperto di artiglieria, è mi ha detto che le colubrine che abbiamo imbarcato sono dotate di acciarini di nuovo tipo, più semplici da usare ed anche più sicuri; l’unico dubbio è sapere a che punto di addestramento siano i cannonieri.”

“Dopo la partenza da Boston avremo modo di saggiare la loro preparazione facendo esercitazione di tiro” precisò il Duca, poi si rivolse a Jhon Silver parlando sottovoce, “per il momento preferisco che gli uomini non sappiano dove siamo diretti, meno sanno e più dormono sonni tranquilli.”

“Tu dici?” Commentò il secondo.    

 Dopo il colloquio intercorso fra i due, il Duca mandò a chiamare il famiglio e gli ordinò di preparare per il mattino seguente una colazione abbondante per l’equipaggio.

 “Premetto che dovrà essere pronta alle prime luci dell’alba e non più tardi, prima che sorga la marea… intesi!” lo apostrofò bonariamente il Duca, “sii solerte e soprattutto prepara una dose massiccia di caffè con poco zucchero.”

 Alle 04,50 del mattino seguente, ancor prima che il sole facesse capolino dal roseo alone che si stava diffondendo dalla sottile linea dell’orizzonte, i rintocchi del batocchio agitato con vigore dal Nostromo, fecero sì che la campana sotto la chiesuola richiamasse la ciurma alla realtà, a cui fece seguito l’acuto sibilo del suo fischio che penetrò nelle orecchie degli ultimi pigri, restii a lasciare le braccia di morfeo.

“Sveglia poltronacci, giù dalle amache, fate alla svelta altrimenti dirò al cuoco di buttare a mare la colazione e resterete con un palmo di naso.”

 Nonostante il sonno, nel breve giro di mezza clessidra gli uomini di presentarono in fila uno appresso all’altro con la ciotola in mano per ricevere la giusta dose di cibarie e un panino farcito con bacon, però, senza bevande alcoliche.

 “Come sarebbe a dire niente bevande alcoliche” esclamarono in molti nell’apprendere la novità.

“Ordini” replicò il famiglio, “se avete sete sotto la iole del Comandante ci sono delle botticelle colme d’acqua… di quella potete berne quanto vi pare.”

 Nonostante il mugugno, gli uomini si rassegnarono a consumate il primo pasto della giornata; poco meno di un’ora dopo, il Duca fece radunare l’intero equipaggio al centro nave, fu chiamato l’appello, alla fine prese la parola.

 “Miei prodi” iniziò il discorso, poi, prima di continuare si soffermò qualche istante a guardare i volti degli uomini con i quali avrebbe condiviso i prossimi mesi di navigazione, “vi ho chiamato prodi perché sono certo che nessuno di voi si sottrarrà alle proprie responsabilità, soprattutto difronte alle avversità che sicuramente incontreremo… sappiate inoltre, che all’occorrenza dovremo batterci, forse qualcuno di noi morirà, questo però non deve minare la nostra compattezza, la nostra coesione nell’essere uomini di mare… siamo intesi? Ci aspetta un lungo periodo di fatiche e qualche privazione, ma voi, siete uomini coriacei e sono certo che non verrete meno all’eseguire i miei ordini. Ora inginocchiatevi.

“Signore Iddio, benedici questa nave e noi tutti nell’adempimento del nostro dovere e salvaguarda le nostre famiglie durante la nostra assenza, benedici.”

  “Prepararsi per il posto di manovra” urlò a gran voce il secondo in Comando, “ritirare la passerella, alleggerire gli ormeggi, imbarcare l’armo per il traino” poi ordinò ai due mozzi, Little boy e Red, di rientrate i parabordi.

 La prima marea del mattino cominciava a salire e il crescente effluvio face sussultare dolcemente la nave ancora agli ormeggi, mentre una leggera brezza fresca e pungente faceva accapponare la pelle degli uomini attenti alla manovra.

 “Forza sui remi mettere la prora al vento” ordinò il Nostromo portando la mano al lato della bocca e in quel mentre, appena fu libero dagli ormeggi, il brigantino trainato dal ritmo incalzante delle voghe si scostò placidamente dalla banchina.

 “Fuori la trinchettina, prepararsi a sciorinare i contro.”

 Il “Chester II°”, odoroso ancora di vernice fresca e di catramata spalmata sugli arridatoi delle sartie, ebbe un lieve sussulto e si allontanò silenzioso verso l’uscita del porto, sotto lo sguardo attendo del Duca.

“Svelti voialtri date volta al verricello, pronti a issare il pennone di trevo… Gabbieri a riva” ordinò il terzo ufficiale, sciogliere i matafioni, prepararsi  sciorinare la maestra.”  

“Ci siamo quasi” commentò Stilane, “ancora una lunghezza e saremo fuori, liberi di procedere verso il largo.”

“Eh si lo vedo” commentò a sua volta il Duca, “ottima manovra, mi sembra che gli uomini abbiano acquisito una discreta padronanza con i nuovi verricelli… bene, molto bene.”   

 Il “Chester II°” spiegò tutte le vele al primo sole del mattino e nonostante qualche sobbalzo, aumentò docile l’andatura. Il primo impatto con le bizzarrie delle onde causò un po’ di malore a qualche provetto marinaio che ancora non aveva fatto il piede marino, specie i due mozzi: Little boy e Red, entrambi stesi a paiolo sottocoperta.

 “Ancora qualche giorno poi si adegueranno” commentò il Nostromo compiacente nell’aver concesso loro di starsene alla ramòcia sottocoperta.   

 Mentre la navigazione proseguiva, gli uomini e gli stessi ufficiali cominciavano a compenetrarsi  con la vita di bordo, mentre il Duca se ne stava in solitudine nei pressi del coronamento di poppa, e, assorto com’era nei propri pensieri, continuava ad osservare la nave e gli uomini al suo comando, ciascuno intento a svolgere le proprie incombenze. Nessuno sapeva cosa stesse pensando l’uomo che li comandava, solo in disparte all’estremità della nave; forse pensava alle difficoltà che avrebbero dovuto affrontare, seppure, aveva i lineamenti del volto distesi e lo sguardo appariva sereno, quasi sorridente e questo, per quanto si potesse supporre tranquillizzava l’equipaggio. Tre giorni dopo il “Chester II°”, com’era previsto, si preparava ad entrare nel porto di Boston per imbarcare il munizionamento, dopo di che sarebbe iniziato il pattugliamento alla ricerca di corsari francesi. Appena ultimato l’ormeggio al molo predisposto per le navi militari, il Duca inviò John Silver alla Capitaneria di Porto per metterli sull’avviso che erano pronti a imbarcare la spettanza di polveri e i proiettili e per quanto possibile, se si potevano accelerare i tempi.

 “Mi hanno assicurato che i carri col materiale arriveranno domattina presto” precisò John Silver Stilane.

“Ottimo, se così sarà” precisò il Duca, “dopodomani potremmo salpare per la nostra missione: l’Ammiragliato mi ha sollecitato a non perdere altro tempo, ultimamente abbiamo subito troppe perdite, quei corsari stanno paralizzando il traffico commerciale e arrecano un danno economico di notevole entità alla nostra economia.”

“Quello che non capisco” intervenne John Silver, “è perché dobbiamo dirigerci verso i Caraibi anziché intercettare i corsari lungo la costa.”

“Devi sapere una cosa” precisò il Duca parlando sottovoce, “secondo i dati in possesso dell’Intelligence, sembra che la maggior concentrazione di naviglio francese si aggiri in quelle acque, perciò bisogna stanarli e indurli a desistere dall’arrembare i nostri mercantili; dopotutto apparteniamo alla Marina da guerra americana e come tali agiremo, intercettando il più possibile navi militari francesi; lungo la costa ci penseranno i nostri corsari a contrastare le piccole unità francesi… inoltre, so per certo che il Congresso ha autorizzato la costruzione di nuove navi più potenti della nostra, ed anzi, credo che la nuova fregata u.s.s. Congress sia già in costruzione e sarà la prima ad essere varata.”

“Beh questo mi conforta” commentò il secondo rassicurato dalle parole del Duca, “più siamo e meglio riusciremo nell’intento” terminò.

Il mattino seguente, appena dopo l’alba, i carri colmi di  munizioni arrivarono sottobordo, cosicché la nave fu allertata e senza perdere tempo gli uomini cominciarono a trasbordare palle da cannone suddivise per tipologie: palle singole, palle incatenate e incendiarie che furono sistemate nelle apposite rastrelliere nelle vicinanze dei cannoni, pronte all’uso e la rimanenza depositate nella riservetta, ivi compresi i sacchi di polvere nera che furono stivati negli appositi incavi nel sottoponte. Assieme alle spettanze per le bocche da fuoco arrivarono anche proiettili e foconi per pistole e moschetti insomma, un vero arsenale di fuoco, al che, il commento del Nostromo fu: “Speriamo di usarne meno possibile” disse rivolto all’amico timoniere, “ho già visto in passato cosa possono causare questi gingilli.”

 Harvey guardò con stupore il Nostromo per l’affermazione che aveva esternato poc’anzi e gli chiese dove, nel suo recente passato, aveva visto dei tafferugli o in quali combattimenti aveva partecipato. Lahu Fisher guardò l’amico, poi il suo sguardo si perse oltre il capodibanda, come se stesso cercando di ricordare ciò di cui aveva ancora timore.

 “E’ stato lo scorso anno, a Cuba, durante la guerra contro la Spagna, io ero imbarcato come secondo nostromo su una Goletta al Comando del Tenente di Vascello, Ernest McDarsy, un giovane ufficiale che proveniva della Marina mercantile, di lui posso dire che era un bravo marinaio, conosceva il mestiere e sapeva governare la nave come si conviene e in qualsiasi condizione di mare; quello che non sapeva, data la giovane età e l’inesperienza, era il saper valutare con la giusta misura le azioni in combattimento… sai bene” continuò serrato il Nostromo, “quanto sia importante saper prendere delle decisioni improvvise, anche se debbo dire che il Capitano McDarsy fu sfortunato e beffato dalle circostanze. Ebbene” continuò serio, “un triste mattino il “Nettuno”, così si chiavava la nave, era appena uscita da un violenta burrasca che aveva imperversato su di noi per quattro giorni senza dare un attimo di respiro, con onde altissime e vento teso; avevamo perso gli alberetti di trinchetto e la vela di gabbia si era lacerata, perciò non era facile governare la nave in quelle condizioni, soprattutto per la scarsità di uomini. Due membri dell’equipaggio erano dispersi in mare, altri due erano feriti gravemente alle gambe a causa di una botte che aveva rotto i rizzaggi e li aveva travolti malamente; la rimanenza dell’equipaggio era per metà a paiolo per una passata di febbre altissima e gli uomini non si reggevano in piedi. Finalmente quando il tempo migliorò, il Capitano poté rendersi conto delle condizioni in cui ci trovavamo e fece del suo meglio per riportare la nave in assetto. Con calma fece eseguire le riparazioni più necessarie, poi si dedicò ai feriti gravi, distribuì del chinino a quelli febbricitanti e finalmente, il cuoco di bordo fu in grado di accendere i fornelli e preparare un pasto caldo. Non erano rose e fiori, tuttavia pian piano ci si stava riprendendo, senonché un paio di giorni dopo incrociammo una fregata spagnola diretta verso nord e col vento a favore. Fu una disgrazia. In quel momento ci trovavamo ad una trentina di miglia al largo della Baia di Guantanámo, dove speravamo di rifugiarci, purtroppo appena ci avvistarono gli spagnoli non persero tempo e ci puntarono per ingaggiare battaglia ed anche se la nave spagnola era più grande di noi, non potevamo sottrarci allo scontro, così il nostro Capitano dette l’allarme e ci preparammo ad affrontare il nemico; mise i quattro pezzi in punteria e accostò a sinistra; a cento iarde incrociammo di filata la fregata spagnola e aprimmo il fuoco colpendo il bersaglio, ma la potenza ridotta dei nostri cannoni fece ben poca cosa, al contrario degli spagnoli dai quali subimmo un sventagliata mortale, ben dodici bocche da 18 Lb. ci colpirono in pieno, il Capitano morì colpito in pieno petto da una palla, molti altri furono feriti altrettanto gravemente… poi udii uno schianto e vidi l’albero di maestra precipitare in coperta trascinando con sé tutte le vele compresi gli stralli, una palla divelse persino la ruota di comando del timone rendendo impossibile il governo della nave. Insomma, fu una carneficina. Alla fine qualcuno, non so chi, ammainò la bandiera in segno di resa. Dei 60 uomini che componevano l’equipaggio ci salvammo solo in cinque, alla fine morirono anche quelli con le gambe rotte, degli ufficiali rimase in vita solo un guardiamarina. Ecco dove ho visto cosa possono fare questi gingilli.” Concluse.

 

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