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Alessandro F. Kineith

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 Alessandro  F.  Kineith

 

Sulle rive del lago Champlain

 

romanzo

 

Avventure sui mari

(Vol. VII°)

 Edizione 2017

 

  

Prefazione storica

  Il trattato di Parigi firmato il 3 Settembre del 1783, detto anche trattato di Versailles, fu sottoscritto da: Inghilterra, Francia, Spagna, Province Unite Olandesi e le Tredici Colonie inglesi (che diverranno poi gli Stati Uniti d’America); esso  sanciva la fine di un conflitto che durava da oramai otto lunghi anni.  Tradotto in termini semplici, questo trattato segnava anzitutto la fine della guerra d’indipedenza delle Tredici colonie inglesi e di tutti i conflitti collegati al territorio del Nord Est americano, fra cui menzioniamo:

“la guerra anglo-spagnola”;

“la guerra anglo-francese”;

“la quarta guerra anglo-olandese”.

 Nello specifico tale trattato si articolava in nove punti fondamentali ovvero: 

·         il pieno riconoscimento da parte dell’Inghilterra dell'avvenuta indipendenza degli Stati   Uniti d’America;

·         La rinuncia da parte di quest’ultima dei territori compresi fra i monti Allegani (si tratta di una propaggine montuosa dei Monti Appalachi che si estende da Nord-Est verso sud-Ovest) e il Mississippi, che diventava la linea di frontiera fra gli Stati Uniti e i possedimenti spagnoli nell’America settentrionale;

·         Il diritto di libera navigazione sul Mississippi delle imbarcazioni britanniche e degli Stati Uniti;

·         il mantenimento del territorio del Canada (il più ricco di animali da pelliccia, il cui commercio costituiva il pilastro dell'economia nord-americana di quell'epoca) da parte della Gran Bretagna e della Compagnia delle pellicce della Baia di Hudson in territorio canadese.

·         La restituzione all’Inghilterra delle isole Antille occupate dalla Francia;

·         La restituzione alla Francia dell'isola di Tobago e di alcuni avamposti fortificati sulla costa del Senegal;

·         La restituzione a Spagna e ai Paesi Bassi di tutte le colonie occupate dalla Gran Bretagna;

·         Il passaggio della Florida dalla Gran Bretagna alla Spagna, (che la cederà agli Stati Uniti nel 1819);

·         La risistemazione dei territori di competenza di Francia e Gran Bretagna in India;

 Tale trattato stabiliva inoltre la possibilità da parte degli Stati Uniti di potersi espandere verso Ovest, verso nuove terre che i coloni definirono: “il far west”. Tutto ciò che non si poteva leggere fra le righe del trattato, era quello che nel corso degli anni a ciascuna nazione era costato in termini economici e di vite umane; a volte la sete di conquista supera la ragione stessa, ciò nonostante, tutto quello che la storia ci ha tramandato sugli accadimenti che si sono sviluppati a valle di quel trattato, è un preludio carico di dissidi che sfocerà nella successiva guerra anglo-americana del 1812-14 risoltasi a sua volta col Trattato di Gand firmato il 24 Dicembre del 1814 e successivamente col trattato di Rush-Bagot, nell’Aprile del 1817, che impose la smilitarizzazione della zona dei Grandi Laghi. A quell’epoca non era del tutto scontato che all’interno del territorio che ora apparteneva agli Stati Uniti le cose si stessero avviando verso la normalità, e che la vita potesse scorrere all’insegna della tranquillità e della prosperità, specie lungo il confine canadese a ridosso dei Grandi Laghi. Quella era una terra ancora in fermento poiché erano troppi gli interessi che legavano la gente che allora vi stazionava. Un esempio ne era la convivenza fra coloni americani e i cacciatori associati alle Compagnie, che gestivano il commercio delle pellicce e del pellame di cuoio a proprio piacimento; i rapporti fra latifondisti inglesi sempre in cerca di nuove terre e i nativi, che vivevano sempre più nell’incertezza; senza contare l’esodo verso il Canada dei lealisti fedeli alla corona inglese, contrari all’avvenuta indipendenza, poiché erano sedotti da un antico retaggio socio politico di tradizione europeista, in netto contrasto con gli indipendentisti, convinti assertori di una libertà conquistata che segnava l’inizio di una demarcazione legata alla conquista e ad un avvenire di più ampio respiro. Tuttavia è doveroso sottolineare che da ambo le parti esistevano ricchi e poveri, conservatori e progressisti, insomma: tutto faceva capo ad una questione di mentalità: se i primi erano più consoni alla cultura, allo sfarzo e una vita fatta di comodità, nel contempo, pur essendo contrari ad una politica di aggressione verso gli indiani, per ovvie ragioni accettavano incondizionatamente lo schiavismo poiché forniva loro manodopera a basso costo. Al contrario degli indipendentisti che aborrivano la schiavitù, ma erano pronti a defraudare i nativi delle loro terre per soddisfare la sete di conquista e ricchezze. Punti contraddittori fortemente radicati negli animi e non vi è dubbio, che nel tempo hanno contribuito ad alimentare nuovi venti di guerra. Non ci è dato sapere con esattezza quando e da che parte abbia oscillato l’ago della bilancia, certo è che nel corso degli avvenimenti sono intervenuti anche altri fenomeni che hanno contribuito a rivoluzionare l’economia, soprattutto le scelte politiche dei nuovi Stati d’America. Primo fra tutti l’autonomia commerciale, che subì un primo rallentamento dovuto alle scorribande barbaresche, seguito da un fermo quasi imposto alle navi mercantili, a causa delle bellicose diatribe fra Inghilterra e Francia. A questo proposito va detto che l’Europa dei bianchi, che allora era la sola che politicamente contava, aveva assistito dapprima alla rivoluzione francese e in un secondo momento, volente o nolente, era stata assoggettata alle mire istrioniche  ed espansionistiche di Napoleone che influenzarono e non di poco l’andamento socio politico dell’intera Europa e d’oltreoceano, a cominciare proprio dal traffico marittimo... e perché? Col trattato di Parigi del 1783 e con il successivo acquisto della Louisiana nel 1803, gli Stati Uniti avevano più che raddoppiato l’estensione del territorio, anzi a dire il vero era quasi triplicato, di conseguenza anche la popolazione era aumentata e con essa, erano aumentati i consumi e il fabbisogno interno. Ebbene, non bisogna dimenticare che in quel contesto storico vi fu anche un notevole sviluppo tecnologico accompagnato da una rivoluzione industriale, specie in Gran Bretagna. Se al principio gli inglesi avevano subito un danno a causa dell’indipendenza Yankee, ora, a seguito di questo potenziale sviluppo si può ben dire che fossero avvantaggiati poiché erano in grado di esportare i loro manufatti industriali e incamerare le merci provenienti dall’America agricola che esportava caffè, tabacco e cotone (prodotti a basso prezzo); ciò significava commercio e in quanto tale, per gli americani significava libertà di navigare nelle acque internazionali; cosa questa che favoriva il Sud che esportava i propri prodotti in Europa e favoriva anche il Nord che forniva le navi per effettuare i trasporti. In questo pacifico equilibrio però, ecco inserirsi Napoleone Bonaparte che il 21 novembre 1806 mise in atto il blocco continentale col quale si proibiva alle navi Inglesi di attraccare in qualsiasi porto sotto la giurisdizione francese; questo per rispondere al blocco dei porti francesi esercitato dalle navi inglesi, al fine di colpire così l’economia della Gran Bretagna, poiché dopo la sconfitta subita a Trafalgar, la Francia, non era più in grado di contrastare il dominio marittimo inglese. Tutto questo però, causò notevoli problemi alle cosiddette Nazioni neutrali, in particolare per quanto riguardava il diritto di perquisizione che la Royal Navy adottava nei confronti delle navi mercantili che commerciavano con la Francia, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti d’America. E qui si apre una contrastante diatriba ovvero: gli armatori statunitensi, a seguito dei cospicui guadagni ricavati dalle esportazioni, si potevano permettere il lusso (calcolato) di pagare i loro equipaggi molto meglio dei loro rispettivi oltreoceano. Gioco forza, appena era possibile, molti marinai inglesi disertavano per arruolarsi nelle fila americane; va inoltre detto che il maggior disagio per i marinai inglesi si riscontrava a bordo delle navi militari, dove la disciplina oltre che ferrea, a volte era applicata con ferocia. Non dimentichiamo che allora era in auge l’arruolamento forzato e questo, faceva di ogni uomo un potenziale disertore. Per quanto civile o democratica fosse la società inglese e comunque la si voglia vedere, l’Ammiragliato commetteva ai danni di liberi cittadini una sorta di sequestro di persona legalmente autorizzato. Inimmaginabile! Ecco quindi le perquisizioni e la sottrazione, anche di interi equipaggi a bordo delle navi americane obbligando i marinai a servire nelle patrie navi di Re Giorgio. Questo sopruso fu la chiave di volta che dette il via ad una sorta di anglofobia, oltremodo alimentata anche dagli ultimi avvenimenti sul fronte interno dovuti alle scorribande indiane sobillate dagli inglesi che colmarono con la battaglia di Tippecanoe, in cui fu scoperto che i nativi erano stati armati con fucili e cannoni di fabbricazione inglese. Tutto questo spinse il Presidente Madison a dichiarare guerra alla Gran Bretagna, se non altro per sottolineare un principio di legalità e togliersi dal groppone l’egemonia Inglese.   Non si può certo parlare di tutto e di tutti, tuttavia fra gli innumerevoli fatti di cronaca e di battaglie, ve ne è una che ha significato, a detta di molti storici, l’abbandono o per meglio dire la definitiva rinuncia inglese a inoltrarsi nel territorio americano delle ex colonie e dar seguito ad un’invasione dello Stato di New York e del Vermont, riscattando così l’onta della raggiunta indipendenza statunitense. Questo importante scontro si svolse sulle sponde del Lago Champlain poiché, geograficamente parlando, questo braccio d’acqua interposto fra lo Stato di New York ad Ovest e lo Stato del Vermont ad Est, si estende da sud verso nord sino a lambire la regione del Quebec in territorio canadese, perciò gli Inglesi lo consideravano una sorta di corridoio allungato che essi potevano facilmente percorrere e dilagare nel territorio avversario. Premesso che riuscissero a impadronirsene. Anche se la guerra anglo-americana del 1812, di fatto, non portò a nulla di concreto sulle conquiste territoriali, sancì a pieno titolo la definitiva e completa indipendenza statunitense e il sacrosanto diritto marittimo di commerciare liberamente in ogni dove sulle acque del globo... non fu una guerra facile per gli Yankee, specie il dover combattere sul fronte del vasto oceano contro una potenza navale di gran lunga superiore alla loro, nonostante ciò, la neo marina statunitense riportò delle brillanti vittorie negli scontri fra unità della stessa classe, e, di fatto, a seguito di tali vittorie, le navi americane dovettero subire il blocco che gli inglesi estesero lungo tutta la costa americana. Tuttavia gli americani ottennero delle brillanti vittorie combattendo nella zona dei Grandi Laghi lungo il confine canadese, ed è appunto di una di queste battaglie che ci occuperemo, la battaglia del Lago Champlain, cruenta e risolutiva ai fini del conflitto Anglo-Americano.

 

 

Capitolo primo

     Il lago Champlain

 David Tompusse arrivò sulla sponda sud est del Lago Champlain nella primavera del 1795, esattamente dodici anni dopo che gli Stati Uniti d’America si erano staccati definitivamente dal grembo della madre patria. Tompusse era uno dei tanti pionieri in cerca di fortuna e come tale, era pronto ad affrontare qualsiasi avventura si ponesse nel suo cammino. Egli possedeva poche cose: un mulo, poche vettovaglie, una bisaccia in cui custodiva i pochi viveri che portava con sé, una vecchia coperta, una cerata per la pioggia e un fucile “Pennsylvania Dixie” a percussione, oltre s’intende ad una scatola di acciarini. David era un uomo di bell’aspetto, alto e di corporatura robusta, molto agile e sicuro di sé; forse anche un po’ spavaldo come tutti i pionieri che in quegli anni si avventuravano lungo la frontiera, inoltre era dotato di una vista acuta, e, cosa non da poco, era un tiratore eccezionale, poiché era capace di colpire la testa di un gallo di prateria a notevole distanza; tutto merito degli insegnamenti di suo padre, anch’egli grande cacciatore, sfortunatamente ucciso l’anno precedente durante un scontro con gli indiani mentre cacciava lungo il fiume Hudson. David non portava rancore verso i nativi, poiché in cuor suo pensava che era l’uomo bianco ad essere l’invasore, contrariamente agli indiani che da migliaia di anni vivevano a casa propria e come tali, difendevano i loro territori di caccia. Che si trattasse di lungimiranza o meno, questo libero pensiero lo faceva sentire in pace con se stesso e questo, contribuiva a renderlo più obbiettivo nel valutare le circostanze che gli si presentavano. Tuttavia non esternava mai questo suo pensiero, poiché in quei tempi era meglio tenere per sé certe convinzioni. Le poche volte in cui non cavalcava il vecchio oreste, il mulo, l’animale lo seguiva mansueto a testa bassa con le briglie sciolte. Mentre procedeva nel folto della boscaglia, David osservava con molta attenzione il territorio circostante; di tanto intanto sostava acutizzando l’udito qualora vi fosse stato qualche rumore sospetto, inoltre faceva particolare attenzione ad ogni traccia che individuava lungo il sentiero che percorreva, e di segnali ve n’erano: qualche traccia di indiani, di animali, di piccoli bivacchi e segni di trappole. Intanto procedeva cauto passo dopo passo verso una meta ancora misconosciuta, inconsapevole di dove il destino lo avrebbe condotto. Aveva sentito dire che quel territorio era ricco di acqua e di animali da pelliccia, era quindi deciso a volersi dedicare a questa nuova attività o semmai, confidava di unirsi a qualche Compagnia per cacciare. Ed ora eccolo mentre usciva dalla boscaglia ed osservava incredulo la distesa lacuale che gli era apparsa innanzi. Certo era che madre natura aveva elargito a quei luoghi una particolare bellezza e David, non poté che rimanere incantato da cotanta abbondanza di colori, di querce secolari, larici, abeti, betulle argentate e piante acquatiche che crescevano rigogliose lungo i bordi del lago. “Oh ecco qua... un altro colono in cerca di fortuna, come se non ve ne fossero abbastanza” udì una voce provenire dal suo lato sinistro.  David si girò di scatto e il suo sguardo inquadrò un uomo seduto sopra una piccola stuoia di paglia intrecciata con la schiena appoggiata ad una grossa pietra dipinta da strani segni, probabilmente incisi tempo addietro da qualche indiano. Costui aspirava lente boccate di fumo servendosi di una lunga pipa con un fornello di osso bianco.

 “Non vi avevo visto, nascosto dietro quel cespuglio di fabacea colorata” disse a fiato sospeso.

“Io invece ti ho sentito arrivare già da un po’.”

“Strano, non mi sembra di aver fatto così tanto rumore” esclamò piuttosto sorpreso David,

“Non è stato il rumore... ma la puzza del tuo mulo; quando ti avvicini da qualche parte, se non vuoi farti individuare, anzitempo devi procedere sopravento; da queste parti conta molto anche il fiuto... può salvarti la vita, ricordalo.”

“Okay, vedrò di ricordarmelo” confermò David.

“Vieni a sederti e se lo desideri, in quella brocca sopra le braci c’è del caffè, serviti pure.”

“Grazie ne berrò volentieri una tazza” disse incredulo.

 David si versò una tazza di caffè bello caldo, poi sedette con le gambe incrociate difronte a quell’uomo dall’età indefinita e che aveva l’aspetto di chi viveva lontano dalla civiltà da troppo tempo; i capelli arruffati e rossastri sbucavano forzatamente dai lati del cappello oramai logoro, la barba anch’essa rossiccia e irsuta che gli copriva gran parte del viso nascondendo qualsiasi espressione avesse; gli occhi piccoli e neri come la notte, gli conferivano un sguardo all’apparenza inespressivo, ma attento a tutto ciò che osservava. Indossava una giacca in pelle di daino cucita a mano con lacci di cuoio grossolani ma robusti, racchiusa in vita da una larga cinta di cuoio nero con una pistola conficcata nel fianco sinistro, pantaloni di flanella grigio verde e stivali in cuoio oramai logori e infangati. Chi fosse costui era facile intuirlo poiché aveva tutta l’aria d’essere un cacciatore o semmai quella di un Trapper vagabondo che amava vivere solitario e all’aperto, lontano dalla civiltà; non che vi fossero molti gentiluomini che si aggirassero da quelle parti, ma costui era più assomigliante ad un selvaggio che ad un proprio simile. Tuttavia a quel primo approccio si dimostrò docile e di compagnia.

 “Dimmi ragazzo, come ti chiami.”

“Il mio nome è David Tompusse” disse serio.

“Oh miseriaccia... il nome David lo comprendo, ma Tompusse che razza di cognome è?” Esclamò sollevando la schiena dal suo appoggio.

“Non ti meravigliare” esclamò sorridendo David, “per la verità sarebbe un cognome francese ovvero: Tom Poucet, che in lingua inglese si tradurrebbe in Tom Trumb... francamente a me non piace sentirmi paragonare ad una sorta di le petit Poucet, così l’ho modificato in Tompusse.”

“Beh figliolo, a mio modesto parere faresti bene a trovare qualche altra soluzione... Tompusse non è che sia un granché.”

“Andrà bene vedrai... sempre meglio che essere paragonato ad un piccolo pollicino.”

 David assaporò il caffè mentre il vecchio trapper riattivò il fornello della pipa. Non era forse la migliore delle compagnie, ma in quel frangente dopo giorni e giorni di solitudine poteva andar bene, se non altro aveva dimostrato d’essere un uomo tranquillo e ospitale. In quel momento a David venne in mente che se il suo mulo puzzava, almeno era da annoverarsi fra le bestie, ma costui doveva aver perso l’abitudine di lavarsi da troppo tempo; comunque soprassedé alla cosa e continuò ad assaporare il caffè.

 “E tu” chiese all’improvviso David guardando l’uomo dritto negli occhi, quale è il tuo nome?”

 Costui aprì un piccolo serramanico e grattò la superfice interna del fornello della pipa per togliere i residui, poi guardò David per qualche istante e pronunciò il suo nome.

 “Jeremiah.. Jeremiah Collins, sempre meglio di Tompusse” esclamò a bassa voce come se avesse voluto evitare che qualche altro lo sentisse, “quindi se ho ben capito sei un francese” continuò alcuni istanti dopo verso il nuovo arrivato.

“Per metà, mio padre era francese, mentre mia madre è nata in questa terra... a Boston.”

“Ohibò, un mezzo francese.”

“Se proprio vuoi sottilizzare, sì, sono mezzo francese ma io mi considero americano, perché sono nato a Boston, inoltre posso dirti che mio padre ha combattuto proprio qui sul lago Champlain contro gli inglesi, nel 1755, allora si trovava distaccato a Crown Point con la compagnia di granatieri francesi e ha partecipato all’attacco di Fort Edward.”

“Per la miseria Tompusse, lasciati dire che la tua famiglia ha delle sobrie tradizioni patriottiche... qua la mano, chiunque abbia combattuto contro gli Inglesi, di qualsiasi nazionalità sia, è sempre il benvoluto.”

 “Di un po’ Collins cosa significano quei segni dipinti su quella pietra?” Chiese di rimando Tompusse.

“Questi sono dei vecchi segni incisi dagli indiani Abenachi alcuni anni fa... oramai sono quasi illeggibili.”

“E cosa stanno a significare?”

“Che un gruppo di loro, con la prima luna di primavera si è spostato verso i territori di caccia... ecco vedi: questi segni rappresentano quanti tepee si sono spostati; quest’altri indicano le donne e bambini; quest’altri il numero di guerrieri e il capo in testa... aspetta un po’” disse Jeremiah scostandosi dal masso per osservare più da vicino quegli strani scarabocchi, “ah ecco qua il suo nome, inini bimose, che sta a significare uomo che cammina; in fine qua sotto sta scritto quanti cavalli possedevano.”

“Perché mai hanno specificato quanti cavalli possedevano?”

“Sai figliolo... un tempo gli indiani andavano a piedi, ma da quando hanno conosciuto il cavallo e hanno imparato a servirsene, specie nelle praterie, questo nobile animale è diventato una merce di scambio molto preziosa e chi ne possiede si sente importante... noi diremmo che si sente un benestante.”

“Non mi dire... è dunque così importante per un indiano possedere un cavallo!”

“Eh direi proprio di sì, oltretutto un cavallo è più utile e docile di quel mulo che ti porti appresso... i muli scalciamo.”

“Chi il vecchio oreste” esclamò sorridendo David, “oramai è troppo stanco per essere recalcitrante, quasi non si regge in piedi povera bestia.”

“E tu, perché non possiedi un cavallo?” Chiese incuriosito David rivolto al Trapper.

“Chi va per i boschi non ha bisogno di un cavallo, bastano un buon paio di stivali e voglia di camminare.”

 Stettero lì seduti in compagnia ancora per qualche tempo, poi David si alzò e si avvicinò alla sua cavalcatura ed estrasse dalla bisaccia una piccola borraccia.

“Se lo desideri, posso ricambiare il tuo caffè offrendoti una sorsata di rum” esclamò abbozzando un lieve sorriso.

“Per Bacco, dio del vino” esclamò Jeremiah, “del nettare divino, certo che puoi... ho proprio la gola secca dal fumo.”

 Jeremiah assaporò una lunga sorsata, guardò verso l’alto ed esclamò soddisfatto... “è proprio quel che ci voleva. Grazie.”

 “Senti Jeremiah” interloquì David, “ho quasi esaurito le mie scorte alimentari, oramai mi sono rimasti solamente due tranci di carne affumicata e alcune gallette ammuffite, dove posso trovare nei paraggi un posto dove potrei mettere sotto i denti qualcosa di commestibile?”

“Beh a qualche miglio verso sud c’è un piccolo borgo, basta seguire la riva del lago e ci finisci contro.”

“Come si chiama questo posto?”   

“Che io sappia non ha nome, sono poche baracche, quello che so è che c’è un piccolo emporio dove si possono acquistare delle cose e si può anche mangiare... credo abbiano anche delle cucce per chi vuol dormire al coperto.”

“Ottimo” esclamò il giovane Tompusse, “è da così tanto tempo che non dormo su un letto e non mangio un pasto caldo, credo proprio che ne approfitterò.”

“Sai che ti dico” riprese a dire il vecchio Trapper dopo una pausa di riflessione, “mi sa che vengo con te... non ti dispiace vero?”

“Assolutamente no, anzi se non ti offendi vorrei offrirti una bistecca e un boccale di birra bella fresca.”

“E io accetto più che volentieri, anche perché le mie risorse pecuniarie oramai si sono esaurite da un pezzo.”

“Allora mettiamoci in marcia” replicò Tompusse.

 

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